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LAVORARE PER VIVERE. E basta!

15 Lug

rifkin

«Ogni volta che c’è una recessione, facciamo sempre la stessa cosa: pompiamo soldi nel mercato e diciamo che vogliamo tagliare le spese. Ma la ripresa si alimenta spendendo, le nostre spese fanno crescere la domanda, i Paesi emergenti ne approfittano aumentando la produzione per moltiplicare l’offerta, e questo fa salire i costi delle materie prime come il petrolio. Di conseguenza tutti i prezzi aumentano, compresi quelli del cibo, e quindi ci ritroviamo in breve in una nuova situazione insostenibile, tornando a fare affidamento sul debito per soddisfare le nostre esigenze. Così non ne verremo mai fuori. La crisi finirà solo quando cambieremo il nostro paradigma economico. Dobbiamo passare dalla Seconda rivoluzione industriale alla Terza, per smettere di consumare le ricchezze del passato e tornare a produrre liberando la nostra creatività»

Così l’economista Jeremy Rifkin circa il dramma economico che si sta attanagliando alla vigila di quella che egli definisce la Terza Rivoluzione Industriale. Di cosa si tratta, nello specifico? Vediamo:

Energia nuova
«La gestione dell’energia – scrive Rifkin – forma la natura della civiltà. Come è organizzata, come i frutti del commercio sono distribuiti, come viene esercitato il potere politico e le relazioni sociali. Il controllo di produzione e distribuzione dell’energia si sta spostando dalle gigantesche compagnie centralizzate basate sui combustibili fossili, a milioni di piccoli produttori che generano le loro energie rinnovabili e commerciano i surplus». «La nuova era porterà una riorganizzazione dei rapporti di potere a tutti i livelli. Mentre la Prima e la Seconda rivoluzione favorivano centralizzazione e verticalizzazione, con strutture organizzative che operavano nei mercati dall’alto in basso, la Terza si muove per vie laterali, preferendo i modelli di business collaborativi che funzionano meglio nei network. La “democratizzazione dell’energia” ha profonde implicazioni su come orchestriamo l’intera vita umana. Stiamo entrando nell’era del “capitalismo distribuito”. Il rapporto da avversari tra venditore e compratore è sostituito dalla relazione collaborativa fra fornitore e utilizzatore».

Nuovi modelli
«Il capitalismo distribuito introduce modelli nuovi, inclusa la stampa tridimensionale nel settore manifatturiero, e le imprese che condividono i risparmi di scala nel campo dei servizi, capaci di ridurre enormemente i capitali, l’energia e i costi del lavoro, incrementando la produttività».

La politica
«La Terza rivoluzione cambia il business, ma anche la politica. C’è un nuovo atteggiamento mentale nelle generazioni di leader socializzati via Internet. La loro politica non riguarda più lo scontro fra destra e sinistra, ma tra il modello autoritario e centralizzato e quello distribuito e collaborativo». «Mentre Prima e Seconda rivoluzione erano accompagnate dalle economie nazionali e dalla governance della nazione-stato, la Terza, essendo distributiva e collaborativa per natura, progredisce lateralmente e favorisce le economie e le unioni governative continentali».

Geopolitica e biosfera
«L’era intercontinentale trasformerà le relazioni internazionali dalla geopolitica alla politica della biosfera. Nella Prima e Seconda rivoluzione, la Terra era concepita in maniera meccanica e utilitaristica. Era vista come contenitore di risorse utili, pronte per essere appropriate a fini economici, e gli stati nazione erano formati per competere e assicurarsi il loro controllo. Il passaggio verso le energie rinnovabili ridefinirà la nozione delle relazioni internazionali lungo le linee del pensiero ecologico… La biosfera ci porta da una visione coloniale della natura, come nemico da saccheggiare e schiavizzare, a una nuova visione della natura come comunità condivisa da proteggere. Il valore utilitaristico della natura sta facendo spazio al suo valore intrinseco. Questo è il significato profondo dello sviluppo sostenibile».

Addio Adam Smith
«Sui mercati, i vuoti scambi di proprietà sono stati parzialmente rovesciati dall’accesso condiviso ai servizi commerciali nei network open-source. Gran parte dell’economia, come viene insegnata oggi, è sempre più irrilevante per spiegare il passato, capire il presente e prevedere il futuro».

L’istruzione
«Preparare la forza lavoro e la cittadinanza per la nuova società richiederà di ripensare i modelli tradizionali di istruzione, con la loro enfasi sul rigido insegnamento e la memorizzazione dei fatti. Nella nuova era globalmente connessa la missione primaria dell’istruzione sarà preparare gli studenti a pensare e agire come parte di una biosfera condivisa. L’approccio dominante dell’insegnamento dall’alto al basso, che ha l’obiettivo di creare un essere competitivo e autonomo, sta dando spazio ad una istruzione “distribuita e collaborativa”. L’intelligenza non è qualcosa che si eredita o una risorsa da accumulare, ma piuttosto un’esperienza comune distribuita tra le persone».

La nuova qualità della vita
«La Terza rivoluzione cambia il nostro senso della relazione e la responsabilità verso gli altri esseri umani. Condividere le energie rinnovabili della Terra crea una nuova identità della specie. Questa coscienza di interconnettività sta facendo nascere un nuovo sogno di “qualità della vita”, soprattutto tra i giovani. Il sogno americano si colloca nella tradizione illuministica, con la sua enfasi nella ricerca del proprio interesse materiale. Qualità della vita, però, parla di una nuova visione del futuro, basata su interesse collaborativo, connettività e interdipendenza. La vera libertà non sta nell’essere slegato dagli altri, ma in profonda partecipazione con essi. Se la libertà è l’ottimizzazione di una vita, essa si misura con la ricchezza e la diversità delle esperienze di ciascuno, e la forza dei suoi legami sociali. Una vita vissuta meno di così è un’esistenza impoverita».

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RETROSPETTIVA ROBERT CAPA Palazzo Reale, Torino

15 Lug

Si è conclusa a Torino Palazzo Reale, la bella retrospettiva sul lavoro del più importante fotografo di guerra della storia, Robert Capa.

Co fondatore dell’agenzia Magnum, Capa ha avuto una vita brillante, frequentando belle donne come Ingrid Bergman, artisti come Picasso, grandi scrittori come Hemingway. Ha docuementato, oltre a scatti mondani e di attualità, la guerra civile spagnola, lo sbarco in Normandia, la guerra tra Cina e Giappone. E’ al seguito delle truppe americane durante lo sbarco in Sicilia nella seconda guerra mondiale e, con loro a Napoli dopo le cinque giornate dell’insurrezione. Perso la vita nel 1954, in Indocina saltando sopra una mina.

Robert_Capa

Endre Friedman (il vero nome di Robert Capa) nasce a Budapest il 22 ottobre 1913. Esiliato dall’Ungheria nel 1931 per aver partecipato ad attività studentesche di sinistra, si trasferisce a Berlino dove si iscrive, in autunno, al corso di giornalismo della Deutsche Hochschule fur Politik. Alla fine dell’anno apprende che l’attività della sartoria dei genitori va male e che non può più ricevere danaro per gli studi, il vitto e l’alloggio.

Un conoscente ungherese lo aiuta allora a trovare un lavoro di fattorino e aiutante di laboratorio presso Dephot, un importante agenzia fotografica di Berlino. Il direttore, Simon Guttam, scopre ben presto il suo talento e comincia ad affidargli dei piccoli servizi fotografici sulla cronaca locale.

Ottiene il primo incarico importante in dicembre, quando Guttam lo manda a Copenaghen per fotografare una lezione di Lev Trotzkij agli studenti danesi. Nel 1933, al momento dell’ascesa al potere di Hitler, fugge però da Berlino, e precisamente subito dopo il drammatico incendio del Reichstag avvenuto il 27 febbraio. Si reca dunque a Vienna, dove ottiene il permesso di tornare a Budapest, la città natia. Qui trascorre l’estate e, per sopravvivere, lavora ancora come fotografo, anche se la sua permanenza dura ben poco. Giusto il tempo che si affacci la stagione invernale e parte alla volta di Parigi, seguendo il suo istinto errabondo ed irrequieto.

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Gerda Taro

Nella città francese incontra Gerda Taro, una profuga tedesca, e se ne innamora.

 

In quel periodo, viene inviato in Spagna per una serie di servizi fotogiornalistici su interessamento di Simon Guttmann. E’ l’anno 1936 quando, con un colpo di fantasia, si inventa un personaggio di fantasia, spacciando a tutti il suo lavoro come il frutto di un fotografo americano di successo.

E’ la stessa Gerda, in verità, che vende ai redattori le fotografie di Edward sotto “mentite spoglie”. Ben presto il trucco viene scoperto, allora cambia il proprio nome con quello di Robert Capa. Fotografa i tumulti di Parigi nell’ambito delle elezioni della coalizione governativa di sinistra nota come Fronte Popolare. In agosto si reca in Spagna con Gerda Taro, per fotografare la guerra civile scoppiata in luglio. Effettua un secondo viaggio in Spagna in novembre per fotografare la resistenza di Madrid. E’ presente su vari fronti spagnoli, da solo e con Gerda, diventata nel frattempo una fotogiornalista indipendente. Nel luglio del ’37, mentre egli si trovava a Parigi per lavoro, Gerda va a fotografare la battaglia di Brunete a ovest di Madrid. Durante una ritirata, nella confusione, muore schiacciata da un carro armato del governo spagnolo. Capa, che sperava di sposarla non si risolleverà mai dal dolore.

L’anno dopo trascorre sei mesi in Cina in compagnia del cineasta Joris Ivens per documentare la resistenza contro l’invasione giapponese ma, tornato in Spagna nel ’39, fa in tempo a fotografare la capitolazione di Barcellona. Dopo la fine della guerra civile spagnola, in marzo, ritrae i soldati lealisti sconfitti ed esiliati nei campi d’internamento in Francia. Realizza vari servizi in Francia, tra i quali un lungo servizio sul Giro di Francia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, in settembre, s’imbarca per New York dove comincia a realizzare vari servizi per conto di ” Life “. Trascorre allora alcuni mesi in Messico, proprio su incarico di ” Life “, per fotografare la campagna presidenziale e le elezioni. Non contento, attraversa l’Atlantico con un convoglio di trasporto di aerei americani in Inghilterra, realizzando numerosi servizi sulle attività belliche degli alleati in Gran Bretagna. Intanto, la guerra mondiale è scoppiata e Capa, da marzo a maggio del ’43, realizza un reportage fotografico sulle vittorie degli alleati in Nord Africa, mentre in Luglio e Agosto, fotografa i successi militari degli alleati in Sicilia. Durante la parte rimanente dell’anno documenta i combattimenti nell’Italia continentale, compresa la liberazione di Napoli.

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Una delle nuove foto ritrovate del D Day scattate da Robert Capa

Gli avvenimenti sono convulsi e si succedono senza sosta, richiedendo sempre la sua indispensabile opera di testimonianza visiva. Nel Gennaio del 1944, ad esempio, partecipa allo sbarco alleato ad Anzio, mentre il 6 Giugno sbarca con il primo contingente delle forze americane a Omaha-Beach in Normandia. E’ al seguito delle truppe americane e francesi durante la campagna che si conclude con la liberazione di Parigi il 25 agosto. In dicembre, fotografa la battaglia di Bulge.

Paracadutato poi con le truppe americane in Germania, fotografa l’invasione degli alleati a Lipsia, Norimberga e Berlino. In giugno incontra Ingrid Bergman a Parigi e inizia una storia che durerà due anni.

Terminato il conflitto mondiale, diventa cittadino americano. Trascorre alcuni mesi a Hollywood, scrivendo le sue memorie di guerra (che intendeva adattare in un copione ), preparandosi a diventare produttore-regista. Infine, decide che il mondo del cinema non gli piace e parte da Hollywood. Alla fine dell’anno, trascorre due mesi in Turchia per le riprese di un documentario.

Nel 1947, insieme con gli amici Henri Cartier-Bresson, David Seymour (detto “Chim” ), George Rodger e William Vandivert fonda l’agenzia fotografica cooperativa “Magnum”. Per un mese viaggia in Unione Sovietica in compagnia dell’amico John Steinbeck. Si reca anche in Cecoslovacchia e a Budapest, visitando inoltre l’Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia con Theodore H.White.

La sua opera di testimone del secolo è instancabile: Nei due anni che vannodal 1948 al ’50 effettua tre viaggi inIsraele. Durante il primo realizza servizi fotografici sulla dichiarazione d’indipendenza e i combattimenti successivi. Nel corso degli ultimi due viaggi si concentra invece sul problema dell’arrivo dei primi profughi. Finito di “fare il suo dovere”, si trasferisce nuovamente a Parigi, dove assume il ruolo di presidente della Magnum, dedicando molto tempo al lavoro dell’agenzia, alla ricerca e alla promozione di giovani fotografi. Purtroppo, quelli sono anche gli anni del maccartismo, della caccia alle streghe scatenata in america. A causa di false accuse di comunismo, dunque, il governo degli Stati Uniti gli ritira il passaporto per alcuni mesi impedendogli di viaggiare per lavorare. Lo stesso anno è affetto da un grave mal di schiena che lo costringe a ricoverarsi.

Nel 1954, in Aprile, trascorre alcuni mesi in Giappone, ospite dell’editore Mainichi. Giunge ad Hanoi attorno al 9 Maggio in veste di inviato di ” Life ” per fotografare la guerra dei francesi in Indocina per un mese. Il 25 Maggio accompagna una missione militare francese da Namdinh al delta del Fiume Rosso. Durante una sosta del convoglio lungo la strada, Capa si allontana in un campo insieme con un drappello di militari dove calpesta una mina anti-uomo, rimanendo ucciso. L’anno dopo, ” Life ” e Overseas Press Club istituiscono il Premio annuale Robert Capa “per la fotografia di altissima qualità sostenuta da eccezionale coraggio e spirito d’iniziativa all’estero”. Vent’anni dopo, spronato in parte dalla volontà di mantenere in vita l’opera di Robert Capa e di altri fotogiornalisti, Cornell Capa, fratello e collega di Robert, fonda l’International Center for Photography a New York.

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probabilemte, l’ultima foto di Robert Capa scattata il giorno della suo incidente

 

Su Populu Sardu

14 Mag
Ventimila unità in meno nell’industria negli ultimi cinque anni. Più di diecimila lavora-tori negli ammortizzatori sociali nell’ultimo biennio. Più di seicento imprese in crisi. L’urgenza di una strategia per rilanciare la crescita
I numeri della crisi economica in Sardegna
 La segreteria regionale della “Cisl” sarda, nel valutare la dimensione della crisi economica della Sardegna, lo stato delle vertenze di settore e aziendali, soprattutto nei settori produttivi, e l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, ritiene indispensabile un comune piano di rilancio della crescita economica tra Regione e sindacati e l’adozione di politiche industriali e per il lavoro in grado di dare risposta ai disoccupati, ai precari e a quanti si ritrovano ad utilizzare gli ammortizzatori sociali.

È significativo il monitoraggio della crisi industriale: negli ultimi cinque anni, dal 2004 al 2009 (per quest’ultimo anno la media riguarda per il momento le rilevazioni dei primi tre trimestri), i lavoratori dipendenti occupati nell’industria sono diminuiti di ventimila unità. Nel 2004 gli occupati erano centotredicimila, nel 2009 erano novantaquattromila (tre rilevazioni). La percentuale dei lavoratori dipendenti occupati nell’industria, nel terzo trimestre 2009, rispetto al totale dei lavoratori occupati nei diversi settori, è al 19,9percento, la percentuale più bassa degli ultimi cinque anni; infatti nel terzo trimestre 2004 la percentuale degli occupati dell’industria era al 26,7percento.

Il lasso temporale preso in esame è sufficientemente adeguato per dare una valutazione non congiunturale della crisi dell’industria in Sardegna. Si tratta di leggere questi dati considerando anche in termini aggiuntivi il ruolo che, proprio nel 2008, nel 2009 e nei primi mesi del 2010, hanno svolto gli ammortizzatori sociali in deroga, in primo luogo la cassa integrazione. Infatti, in questi anni, la cassa integrazione, nelle diverse varietà, ha ridotto il numero dei licenziamenti, evidenziando comunque una crisi senza precedenti del sistema produttivo isolano. Si aggira intorno alle diecimila unità il numero dei lavoratori interessati dagli ammortizzatori sociali.

Alla luce di questi dati, e della crisi dei settori produttivi, la Cisl Sardegna fa alcune brevi riflessioni: i lavoratori, ed il sindacato che li rappresenta, sono impegnati in durissime lotte, azienda per azienda, a difendere il diritto al lavoro e alla continuità dell’attività produttiva; la gestione delle crisi aziendali “casa per casa”, è una scelta naturale, obbligata e necessitata, per rappresentare al meglio le esigenze dei lavoratori e per responsabilizzare le società sulle ragioni del diritto al lavoro; ma anche per tentare di frenare la fuga di importanti società multinazionali, e per raggiungere accordi che concilino le esigenze dei lavoratori con quelli delle imprese.

Allo Stato e alla Regione, e per loro al Governo nazionale e alla Giunta Regionale, compete però la responsabilità primaria di promuovere la crescita economica, il rilancio dei settori produttivi e industriale, con adeguate politiche di settore; al Governo ed alla Giunta Regionale il sindacato, in considerazione della drammatica crisi, sollecita una strategia, da confrontare e condividere con il sindacato e le parti datoriali, finalizzata a promuovere il lavoro, a sostenere lo sviluppo delle imprese e la capacità attrattiva del territorio isolano; la Regione ha quindi la responsabilità non solo di sostenere i lavoratori nella fase della vertenzialità aziendale, ma di concorrere a eliminare o ridurre le diseconomie esterne al processo produttivo e a rafforzare tutti i fattori della produzione.

È indispensabile pertanto, secondo la Cisl, un programma pluriennale di sviluppo per le attività produttive e, conseguentemente, la predisposizione tra Stato e Regione di un Accordo di Programma Quadro che individui risorse, strumenti, soggetti imprenditoriali e misure di intervento, anche selettive e di natura fiscale, per promuovere una nuova fase di crescita economica. Si tratta quindi di rafforzare l’attività dell’unità di crisi interassessoriale con l’apertura di un confronto tra Regione, sindacati e parti datoriali sulle politiche e sulle strategie necessarie a rilanciare l’industria e i settori produttivi; ma anche a riaprire il tavolo a Palazzo Chigi con il Governo e ad avviare un dialogo con l’Unione Europea.

LA SARDEGNA SIAMO NOI, TUTTI NOI. PERCHE’ QUESTO PUO’ CAPITARE A TUTTI, NESSUNA REGIONE ESCLUSA. E, SE OGGI E’ SUCCESSO A LORO E CI DICIAMO ITALIANI ED UNITI, BISOGNA COMINCIARE A RACOGLIERE LE FIRME PER UNA PROPOSTA DI LEGGE CHE DEFISCALIZZI AL MASSIMO LE ATTIVITA’ SARDE, CHE ORGANIZZI COOPERATIVE DI LAVORO CHE RECUPERANO IL LAVORO DEGLI OPERAI, DEGLI ARTIGIANI, DEI PASTORI.
IL NOSTRO BLOG LANCERA’ UNA CAMPAGNA DI RACCOLTA PER FAR CAPIRE CHE L’INCAPACITA’ POLITICA, IL PLAGIO DEGLI ELETTORI DETERMINANO DISASTRI NEI NUCLEI FAMILIARI E NELLE PERSONE. LA QUESTIONE SARDA SARA’ LA BATTAGLIA. NON LASCIAMO SOLO QUESTO POPOLO CHE HA DATO AL PAESE INTELLETTUALI, STATISTI, ARTISITI. SIAMO TUTTI SU POPULU SARDU.

Questione di Vita (o di Morte)

28 Apr

Per la religione cattolica, il “Libero Arbitrio” è uno dei fondamenti sui quali l’Uomo può scegliere se peccare o meno e, di conseguenza, salvarsi la vita eterna oppure condannarsi. Afferma, inoltre, che l’infinità bontà del nostro Padre, commiserevole e miericorioso, può perdonarci per atti impuri, purchè vi sia pentimento. Ora, partendo da queste due brevi ma non semplicistiche considerazioni, assumiamo che ognuno di noi, nel rispetto o meno degli altri, può scegliere. E siamo tenuti a pensare che il nostro Padre Onnipotente possa perdonare chi, non riuscendo più a sopportare il dolore di qualsiasi forma, decide di chiudere la partita. Quale Padre non perdonerebbe un gesto così estremo e coraggioso? (perchè ci vuole tanto, tanto coraggio). Ed allora, perchè l’Onorevole Calabrò e questo manipolo di governanti tanto si oppongono giocando sulla nostra libertà di coscienza e consapevolezza? Conosco la teoria e pratica del “Libero Arbitrio”? Sanno che anche fornicare (male) è peccato? Leggete quanto segue. Ne va della nostra ed altrui esistenza

Ddl Calabrò, autodeterminazione, articolo 32, nutrizione, DAT (Dichiarazione anticipata di trattamento), testamento biologico, libertà, Costituzione, laicità… Queste le parole che ci hanno accompagnato negli ultimi mesi, provocando accese discussioni con massivo coinvolgimento dell’opinione pubblica a tutti i livelli. Definizioni fumose, contorte, articoli farraginosi, per una legge che invece di garantire l’applicazione dell’articolo 32 della Costituzione («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana») si è trasformata in una legge contro il testamento biologico. Una legge che avrebbe dovuto rispettare la libertà di autodeterminazione degli italiani, avrà invece un effetto liberticida in ogni suo enunciato, rispettosa di principi confessionali e ideologici anziché dei diritti fondamentali della persona. A conferma di ciò basti pensare a quanto detto il 18 febbraio scorso dal capo del Governo in occasione dell´incontro delle delegazioni dell´Italia e del Vaticano all´annuale vertice celebrativo dei Patti Lateranensi: «Il Governo su temi etici e scuole cattoliche terrà conto delle indicazioni della gerarchia ecclesiale. Ma non autorizzerà nemmeno l´adozione ai single, accogliendo le riserve già espresse dal Vaticano», nell’evidente tentativo di lavarsi dei suoi peccati e pagando pegno al Vaticano. Ma proviamo ad analizzare nei dettagli questa autentica mostruosità legislativa del decreto Calabrò (qui il testo in discussione alla Camera). L’articolo 1 apre dichiarando di tener conto degli articoli della Costituzione 2, 3, 13 e 32; il punto a richiama doverosamente il principio per cui «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario», e questo farebbe sperare bene perché si riconosce la libertà di autodeterminazione della persona, cosa che però viene sconfessata nell’articolo 7 al punto 2 quando si afferma che «il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente». Si torna poi trionfalmente al vecchio paternalismo medico quando si ribadisce che «Le indicazioni sono valutate dal medico» facendo appello alla deontologia professionale che il legislatore sembra però non conoscere, poiché il codice deontologico medico all’articolo 38 – quando tratta dell’autonomia del cittadino e direttive anticipate – afferma che «Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa.[…] Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Si procede quindi con cavilli e legacci, che rendono l’attuazione della legge particolarmente insidiosa e di difficile attuazione. Già nei primi articoli, infatti, sorgono problematiche che sembrano di poco conto per il legislatore. Articolo 2, punto 3: «L’alleanza terapeutica […] si esplicita in un documento di consenso informato, firmato dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica». Questo concetto della firma si riprende anche nell’articolo 4, punto 1: «Le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono obbligatorie, sono redatte in forma scritta con atto avente data certa e firma del soggetto interessato» e al punto 2 si ribadisce che «Le Dichiarazioni anticipate di trattamento, manoscritte o dattiloscritte, devono essere adottate in piena libertà e consapevolezza, nonché sottoscritte con firma autografa». Questa ultima puntualizzazione della firma autografa è proprio la ciliegina sulla torta. A questo punto il legislatore dovrebbe spiegare come pensa che un paziente tetraplegico, o in stato avanzato di SLA o con altro impedimento che non gli permetta di tenere in mano una penna possa firmare le sue dichiarazioni. Cosa accadrebbe in questo caso? Articolo 3, punto 5: «Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, stipulata a New York il 13 Dicembre 2006, alimentazione ed idratazione delle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita […] Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». Qui per rafforzare il principio che pane ed acqua non si negano a nessuno, ci si appella strumentalmente anche alla Convenzione delle Nazioni Unite che nell’articolo 25 dice: «Richiedere agli specialisti sanitari di prestare alle persone con disabilità cure della medesima qualità di quelle fornite agli altri, in particolare ottenendo il consenso libero e informato della persona con disabilità coinvolta, accrescendo tra l’altro la conoscenza dei diritti umani della dignità, dell’autonomia e dei bisogni delle persone con disabilità». Visto che l’articolo 3 inizia con un “anche”, è proprio in forza di questa congiunzione che se vogliamo rispettare anche la convenzione Onu è opportuno precisare che anche qui si richiede di ottenere il consenso informato e non l’imposizione obbligatoria della nutrizione «fino al termine della vita». Sottolineiamo inoltre che anche l’articolo 3 (Principi generali) di questa Convenzione ribadisce: «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone». Dal momento che i nostri politici tirano in ballo la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, per amor di coerenza dovrebbero citarla ed applicarla in tutta la sua completezza in particolare laddove si raccomanda di garantire l’apporto delle dovute risorse e supporti alle persone disabili (non agli stati vegetativi). Si ricorda, inoltre, al ministero della Salute, che nel 2006, su esplicita richiesta dello stesso ministero, sono state redatte le linee guida per la Nutrizione Artificiale dove l’articolo 15.5.0 recita: «Nel caso rappresenti terapia alla fine della vita o nello stato vegetativo permanente, la Nutrizione Artificiale dovrà rispondere ai criteri di beneficienza in Medicina […] e cioè assicurarla/interromperla rispettando le documentate convinzioni etiche del paziente». Anche questo piccolo particolare sembra essere stato dimenticato dell’onorevole Calabrò e compagni. Articolo 4, punto 3: «[…] la dichiarazione anticipata di trattamento ha validità per cinque anni, che decorrono dalla redazione dell’atto ai sensi del comma 1, termine oltre il quale perde ogni efficacia». Cosa succede se un cittadino firma oggi la sua dichiarazione di volontà e fra quattro anni subisce un grave incidente, cade in coma per un certo numero di mesi e deve poi attendere un altro anno per essere dichiarato in Stato Vegetativo? La sua DAT nel frattempo sarà scaduta e in forza di questa legge perderà ogni efficacia. Ci troveremo quindi nella paradossale situazione che colui che aveva scelto la sospensione dei trattamenti in caso di Stato Vegetativo si vedrà costretto a subire esattamente quello per cui si era esplicitamente espresso contro. Visto che lo stesso articolo al punto 4 prevede che «la DAT può essere revocata o modificata in ogni momento dal soggetto interessato» che bisogno c’era di mettere una scadenza? Forse nella subdola speranza che il soggetto se ne dimentichi o che raggiunga, con il passare dei quinquenni, uno stato di demenza senile tale da non poterla più rinnovare? Quelli sopra elencati sono solo alcuni dei punti poco chiari o contradditori di questo disegno di legge. Scendere in ulteriori dettagli sarebbe lungo e noioso. La speranza è che tutti i cittadini possano prendere coscienza di quanto questa legge sia falsa e liberticida, contraria al principio di laicità dello Stato e, soprattutto, incurante della libertà individuale garantita dalla Costituzione.

Cinzia Gori portavoce Coordinamento Laico Nazionale

il The nel Deserto…

25 Apr

L’invio di consulenti militari a Bengasi rappresenta il primo passo verso il temuto intervento sul terreno. Ma nonostante l’escalation, la L’invio di consulenti militari a Bengasi rappresenta il primo passo verso il temuto intervento sul terreno. Ma nonostante l’escalation, la pressione militare della Nato non ha sgretolato le forze di Gheddafi come sperato. Ora una soluzione rapida sembra un miraggio. I venti consulenti militari francesi, britannici e italiani inviati in Libia per aiutare i ribelli di Bengasi non rappresentano una forza di occupazione, in quanto sono appunto consulenti e non addestratori. Tuttavia sono “stivali sul suolo” libico. Ogni passo compiuto da questi stivali aumenta il coinvolgimento militare della Nato nella guerra civile libica. Altrettanto significativa è l’estensione della lista degli obiettivi della Nato, che comprende ora i commutatori telefonici di Gheddafi e il ristretto sistema di comunicazione satellitare, profeticamente definito “a doppio uso” (civile e militare). Quello annunciato in settimana a Londra e Bruxelles è il terzo cambio di strategia da quando una risoluzione delle Nazioni unite ha autorizzato la no-fly zone sui cieli della Libia. Gli altri due sono stati la decisione di inviare giubbotti antiproiettile ai ribelli e la lettera in cui Barack Obama sostiene che non esiste un futuro per la Libia con Gheddafi al potere. L’obiettivo della guerra, che inizialmente Obama aveva giurato non essere quello di rovesciare il regime, si è ampliato. Via via che il coinvolgimento della Nato nella guerra è andato aumentando è cresciuta anche la paura del “mission creep” [mutamento incontrollato della missione], anche se come è stato osservato il vero spauracchio è il collasso totale e definitivo dell’iniziativa. Ognuno dei passi avanti compiuti dall’alleanza anti-Gheddafi è cumulativo, e la meta finale ci riguarda tutti. Un mese fa sembrava che le forze di Gheddafi si sarebbero sparpagliate come un mazzo di carte non appena i primi Tomahawks avessero cominciato a squarciare il cielo. In realtà è successo l’esatto opposto, e in più di un’occasione. Le truppe del colonnello hanno trascinato il conflitto in ambiente urbano, hanno nascosto la loro artiglieria pesante sotto terra, piazzato cecchini sui tetti di Misurata e disseminato bombe a grappolo nelle zone controllate dai ribelli. I lanciamissili di Gheddafi non sono più bersagli facili. Ieri gli ufficiali della Nato hanno comunicato che gli attacchi al centro di comunicazione della trentaduesima brigata speciale di Gheddafi hanno ridotto la capacità del regime di comunicare con le truppe dislocate a Brega e Ajdabiya. Ma sempre nella giornata di ieri i vertici dell’alleanza atlantica sono stati costretti ad ammettere che l’offensiva ha avuto un effetto limitato sui combattimenti a Misurata, che il generale canadese Charles Bouchard ha paragonato a una lotta coi coltelli in una cabina telefonica. Raggiungere il centro dello scontro è ancora molto difficile. L’intervento Nato per proteggere i civili a Bengasi potrebbe aver sortito l’effetto opposto a Misurata, Ras Lanuf, Brega e Ajdabiya. La chiave è Misurata Proprio Misurata potrebbe rappresentare un punto di svolta. È qui che l’obiettivo di proteggere le vite dei civili e i risultati militari si sono fusi e sono ormai indistinguibili. Mano a mano che i combattimenti vanno avanti si affievolisce l’effetto simbolico della presenza della Nato. Un mese fa l’intervento dell’alleanza atlantica sembrava poter essere un catalizzatore per gli uomini di Gheddafi che non avevano intenzione di ritrovarsi dal lato sbagliato della guerra, ma oggi l’effetto psicologico non è più scontato. Gheddafi mostra di non avere nessuna paura. Se così non fosse le sue truppe si sarebbero già disgregate, invece lo scontro si sta ampliando. Il colonnello crede ancora di poter conquistare Misurata. Se il tempo gli dovesse dare ragione, l’armata dei ribelli sarebbe improvvisamente neutralizzata. A questo punto ci sono due diverse opzioni. La prima è quella di accettare uno scontro a lungo termine sperando che i ribelli possano un giorno diventare una vera forza militare. In questo caso i cambiamenti strategici cui abbiamo assistito non sarebbero gli ultimi, e la Nato sarebbe costretta ad aumentare la propria presenza in cielo e sul terreno. La seconda opzione è quella di fare un passo indietro e ritentare una via diplomatica, come hanno proposto la Turchia e l’Unione africana. Considerando lo stato attuale delle cose è probabile che a restare al potere alla fine possa essere uno dei clan legati a Gheddafi. Nessuna di queste due opzioni è particolarmente attraente, ma secondo la logica della risoluzione Onu è senz’altro la seconda la più adatta a interrompere le sofferenze dei civili al più presto. Secondo i ribelli di Bengasi il figlio di Gheddafi Saif ha perso le credenziali per presentarsi come l’esponente della riforma dei diritti umani. Ma nonostante ciò, se alla fine il regime non dovesse crollare, sarà con lui che i diplomatici potrebbero ritrovarsi a trattare militare della Nato non ha sgretolato le forze di Gheddafi come sperato. Ora una soluzione rapida sembra un miraggio. I venti consulenti militari francesi, britannici e italiani inviati in Libia per aiutare i ribelli di Bengasi non rappresentano una forza di occupazione, in quanto sono appunto consulenti e non addestratori. Tuttavia sono “stivali sul suolo” libico. Ogni passo compiuto da questi stivali aumenta il coinvolgimento militare della Nato nella guerra civile libica. Altrettanto significativa è l’estensione della lista degli obiettivi della Nato, che comprende ora i commutatori telefonici di Gheddafi e il ristretto sistema di comunicazione satellitare, profeticamente definito “a doppio uso” (civile e militare). Quello annunciato in settimana a Londra e Bruxelles è il terzo cambio di strategia da quando una risoluzione delle Nazioni unite ha autorizzato la no-fly zone sui cieli della Libia. Gli altri due sono stati la decisione di inviare giubbotti antiproiettile ai ribelli e la lettera in cui Barack Obama sostiene che non esiste un futuro per la Libia con Gheddafi al potere. L’obiettivo della guerra, che inizialmente Obama aveva giurato non essere quello di rovesciare il regime, si è ampliato. Via via che il coinvolgimento della Nato nella guerra è andato aumentando è cresciuta anche la paura del “mission creep” [mutamento incontrollato della missione], anche se come è stato osservato il vero spauracchio è il collasso totale e definitivo dell’iniziativa. Ognuno dei passi avanti compiuti dall’alleanza anti-Gheddafi è cumulativo, e la meta finale ci riguarda tutti. Un mese fa sembrava che le forze di Gheddafi si sarebbero sparpagliate come un mazzo di carte non appena i primi Tomahawks avessero cominciato a squarciare il cielo. In realtà è successo l’esatto opposto, e in più di un’occasione. Le truppe del colonnello hanno trascinato il conflitto in ambiente urbano, hanno nascosto la loro artiglieria pesante sotto terra, piazzato cecchini sui tetti di Misurata e disseminato bombe a grappolo nelle zone controllate dai ribelli. I lanciamissili di Gheddafi non sono più bersagli facili. Ieri gli ufficiali della Nato hanno comunicato che gli attacchi al centro di comunicazione della trentaduesima brigata speciale di Gheddafi hanno ridotto la capacità del regime di comunicare con le truppe dislocate a Brega e Ajdabiya. Ma sempre nella giornata di ieri i vertici dell’alleanza atlantica sono stati costretti ad ammettere che l’offensiva ha avuto un effetto limitato sui combattimenti a Misurata, che il generale canadese Charles Bouchard ha paragonato a una lotta coi coltelli in una cabina telefonica. Raggiungere il centro dello scontro è ancora molto difficile. L’intervento Nato per proteggere i civili a Bengasi potrebbe aver sortito l’effetto opposto a Misurata, Ras Lanuf, Brega e Ajdabiya. La chiave è Misurata Proprio Misurata potrebbe rappresentare un punto di svolta. È qui che l’obiettivo di proteggere le vite dei civili e i risultati militari si sono fusi e sono ormai indistinguibili. Mano a mano che i combattimenti vanno avanti si affievolisce l’effetto simbolico della presenza della Nato. Un mese fa l’intervento dell’alleanza atlantica sembrava poter essere un catalizzatore per gli uomini di Gheddafi che non avevano intenzione di ritrovarsi dal lato sbagliato della guerra, ma oggi l’effetto psicologico non è più scontato. Gheddafi mostra di non avere nessuna paura. Se così non fosse le sue truppe si sarebbero già disgregate, invece lo scontro si sta ampliando. Il colonnello crede ancora di poter conquistare Misurata. Se il tempo gli dovesse dare ragione, l’armata dei ribelli sarebbe improvvisamente neutralizzata. A questo punto ci sono due diverse opzioni. La prima è quella di accettare uno scontro a lungo termine sperando che i ribelli possano un giorno diventare una vera forza militare. In questo caso i cambiamenti strategici cui abbiamo assistito non sarebbero gli ultimi, e la Nato sarebbe costretta ad aumentare la propria presenza in cielo e sul terreno. La seconda opzione è quella di fare un passo indietro e ritentare una via diplomatica, come hanno proposto la Turchia e l’Unione africana. Considerando lo stato attuale delle cose è probabile che a restare al potere alla fine possa essere uno dei clan legati a Gheddafi. Nessuna di queste due opzioni è particolarmente attraente, ma secondo la logica della risoluzione Onu è senz’altro la seconda la più adatta a interrompere le sofferenze dei civili al più presto. Secondo i ribelli di Bengasi il figlio di Gheddafi Saif ha perso le credenziali per presentarsi come l’esponente della riforma dei diritti umani. Ma nonostante ciò, se alla fine il regime non dovesse crollare, sarà con lui che i diplomatici potrebbero ritrovarsi a trattare

Salafiti, Israeliti, Maroniti ed Assassini…

15 Apr

Nell’esprimere enorme dolore per la morte di Vittorio Arrigoni, cooperatore impegnato nella difficile situazione della striscia di Gaza, tentiamo di proporre un minimo di informazione su chi sono quelli che, ad oggi, sono accreditati come gli assassini del nostro Amico. Pur restando dubbi che la lunga mano israeliana possa aver partecipato all’eliminazione di una persona scomoda al potere imperante, condanniamo da questo blog ogni forma di integralismo, politico, religioso, culturale. Da una rapida analisi, si può sin d’ora affermare che Vittorio sia stato scelto come vittima sacrificale con lo stesso metodo con cui hanno scelto Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Enzo Baldoni e tanti altri che, pur non contando politicamente troppo, sapevano tanto ed erano liberi da padroni e false suggestioni. Gaza e la questione palestinese sono una vera vergogna per il popolo israeliano ed il mondo tutto. La palese ipocrisia degli interessi politici a scapito della vita umana. E tutto questo in diretta televisiva! probabilmente, i palestinesi valgono meno dei libici.

vittorio arrigoni

I gruppi salafiti a Gaza e in Nord Africa Sono tre i principali gruppi movimenti salafiti attualmente operativi nella Striscia di Gaza e che rappresentano una spina nel fianco per Hamas. Si tratta del Jund Ansar Allah (i Soldati di Dio), del Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam) e del Jaish al Umma (l’Esercito della Nazione). Il più pericolo di questi gruppi per Hamas e per gli equilibri dell’area è quello dei Jund Ansar Allah.

Il leader di questo gruppo salafita, Abdul Latif Abu Moussa, è stato ucciso dai sicari di Hamas durante gli scontri dell’agosto 2009. Nonostante la perdita del suo leader, il movimento non solo è sopravvissuto, ma si è rafforzato soprattutto grazie al commercio attraverso i tunnel clandestini nel sud della Striscia di Gaza.

I salafiti si rifanno al movimento islamico della Salafiyya, che letteralmente significa ‘Movimento degli antenati’, fondato dal riformista egiziano Rashid Rida verso la fine dell’Ottocento. Le organizzazioni salafite si caratterizzano per una rigorosa ideologia apocalittica che comprende un netto rifiuto di tutto quanto è relativo all’Occidente.

Il loro obiettivo è quello di ristabilire il ‘vero Islam’ tramite il ritorno alle fonti, ovvero al Corano e alla Sunna del Profeta Maometto. Nella maggior parte dei casi sono riconducibili direttamente ad al-Qaeda. In passato le autorità di Hamas hanno tentato di reprimere, senza successo, il complesso universo salafita presente nella Striscia di Gaza. Sempre più giovani appaiono attratti dall’estremismo religioso.

Ispirati da Osama bin Laden ma non direttamente collegati ad Al Qaida; estremisti sul piano religioso e politico e in concorrenza con Hamas, che giudicano troppo morbido nell’applicare la Sharia, estraneo all’ideale del Califfato mondiale predicato da Bin Laden e troppo prono al compromesso politico-militare. La galassia salafita, una cui nuova sigla oggi ha rivendicato il rapimento del volontario italiano Vittorio Arrigoni e minaccia di ucciderlo, ripropone lo spettro di una realtà che negli ultimi anni ha dato concreti (e cruenti) segnali di espansione nei Territori.

Un anno fa un portavoce del movimento salafita Abu al-Hareth affermò che nella Striscia di Gaza, Al Qaida “può contare su 11 mila sostenitori”. Ma la consistenza delle fazioni che lo compongono non è facile da determinare. Gli analisti locali concordano sul fatto che si tratti di soggetti ancora largamente minoritari rispetto a Hamas, che dispone di almeno 25.000 uomini armati, controlla sostanzialmente il territorio della Striscia e sembra godere tuttora di un consenso popolare abbastanza diffuso. Ma se alcune sigle appaiono gusci vuoti, altre raccolgono già decine se non centinaia di adepti votati alla morte, propria e altrui: inclusi miliziani ultrà fuoriusciti da Hamas poichè delusi dai “compromessi” imputati all’ala politica del movimento.

Con alcuni di questi ‘deviazionisti’ Hamas è parso voler stabilire in passato un modus vivendi: per esempio con Jaysh al-Islam, legato al potente clan familiare dei Doghmush e coinvolto in operazioni congiunte come la cattura del militare israeliano Ghilad Shalit. Con i gruppi più riottosi, invece, è scoppiato il conflitto aperto, come nel caso di Jaysh al-Umma, il cui capo, Abu Hafs, è stato arrestato, e sopratutto di Jund Ansar Allah (i Guerrieri di Allah): protagonista nel 2009 di una ribellione vera e propria, con decine di ‘mujaheddin’ armati nella moschea-bunker di Rafah, stroncata nel sangue da Hamas solo dopo una violenta battaglia campale di diverse ore.

I gruppi salafiti in Nord Africa e Medio Oriente. Il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) è un gruppo terrorista islamista nato negli anni Novanta, nell’ambito della guerra civile algerina con lo scopo di ribaltare il governo algerino ed istituirvi uno Stato islamico. Con il declino del Gruppo Islamico Armato (GIA), il GSPC restava il maggiore gruppo ribelle, con circa 300 guerriglieri nel 2003, e con un piano di assassinii di personale della polizia e dell’esercito algerino. Nel 2005 si è affiliato ad Al-Qaeda, rinominandosi “Al Qaida nel Maghreb islamico”.

Banca: Più Etico Rapinarla o Fondarla?

5 Apr

I Cocos, ultima follia finanziaria, piacciono all’Italia

Fabrizio Goria

Un nuovo report di Ubs mette in guardia dai rischi sistemici legati all’uso dei Contingent convertible bond, ossia obbligazioni trasformabili in azioni. Nel 2009 la Banca dei regolamenti internazionali li aveva definiti prodotti «troppo imprevedibili per essere incoraggiati dalle authority di vigilanza». Insomma, la finanza ha ripreso a scherzare col fuoco, ma pochi ne parlano. Noi invece continuiamo a farlo, anche perché due istituti – UniCredit e Intesa Sanpaolo – trattano questi strumenti e Algebris, l’hedge fund di Davide Serra, ha creato un fondo basato su questi prodotti.

Lo sconforto di un trader a Wall Street (Afp)

8 marzo 2011 – 17:45I Cocos continuano a far discutere il mondo finanziario. Dopo le accuse del numero uno di Ubs, Oswald Grübel, un nuovo report della banca elvetica mette in guardia dai rischi sistemici legati all’uso di questi strumenti. I Contingent convertible bond, ossia obbligazioni trasformabili in azioni una volta sforati i limiti patrimoniali di Basilea III, potenzialmente «potrebbero creare un effetto domino capace di mettere a dura prova la resistenza delle banche che li hanno utilizzati». E pensare che già nel dicembre 2009 la Banca dei regolamenti internazionali aveva definito i Cocos prodotti «troppo imprevedibili per essere incoraggiati dalle authority di vigilanza».

I nuovi strumenti di finanziamento e salvataggio degli istituti di credito stanno per invadere i mercati. Secondo Standard & Poor’s nei prossimi dieci anni saranno collocati Coco bond per circa mille miliardi di euro. I primi a utilizzarli sono stati gli inglesi del Lloyds, che hanno in portafoglio circa 8,7 miliardi di euro di enhanced capital notes, cioè Cocos. Se il capitale di vigilanza, il Tier 1, scende sotto quota 5% questi vengono immediatamente convertiti in azioni ordinarie. Per Alastair Ryan e John-Paul Crutchley, gli analisti di Ubs che hanno curato il report (ripreso anche daAlphaville, il blog finanziario del Financial Times), gli squilibri iniziano proprio in questo istante. «Qualora la conversione fosse considerata imminente, a causa di un significativo peggioramento della società o dell’outlook del Regno Unito, crediamo che i possessori di questi titoli probabilmente potrebbero scegliere di coprire il rischio vendendo le azioni allo scoperto». In altre parole, se la banca naviga in cattive acque, gli investitori potrebbero cominciare a utilizzare posizioni ribassiste sulla stessa. Ma c’è di più.

In questo scenario di pressione, il ruolo dei sottoscrittori dei Cocos targati Lloyds rimane pressoché invariato, ma se il Tier 1 precipita sotto il 5% scatta la conversione. Oltre alla fuga degli investitori tradizionali, potrebbe esserci quella di chi ha comprato i Cocos, che nel frattempo sono diventati azioni. «Difficilmente un investitore istituzionale decide di mantenere posizioni così a rischio», fa notare Ubs. La prima conseguenza potrebbe essere un ulteriore aggravamento della situazione della banca. L’emorragia di capitale sarebbe nel brevissimo termine ripianata tramite questi strumenti ibridi, ma i nuovi azionisti avrebbero un incentivo a lasciar la barca prima che affondi, tramite la vendita allo scoperto. Operazione, quest’ultima, resa ancora più facile dalla natura dei titoli ora in mano a chi ha comprato i Cocos. E dato che a questi possono accedere solamente investitori istituzionali, cioè hedge fund, fondi pensione, banche d’affari, l’aggressività nel chiudere le posizioni a rischio non dovrebbe mancare.

E l’Italia? Come anticipato dal Financial Times nello scorso luglio, UniCredit è stata la prima fra gli istituti di credito a usare questi strumenti. Un bond ibrido, capace di impattare sul Tier 1, con con tasso fisso del 9,375 per cento. Valore dell’operazione? Circa 500 milioni di euro. Poco rispetto a quanto fatto da Intesa Sanpaolo, fautrice di un’azione analoga in settembre per un controvalore di un miliardo di euro. Nonostante ciò, anche per il nostro sistema il mercato dei Cocos è destinato a salire nei prossimi anni. Barclays ha calcolato che da qui al 2013 saranno emesse obbligazioni ibride pari a 23,7 miliardi di euro per le prime quattro banche italiane (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, Ubi).

Sebbene i rischi legati ai Cocos siano elevati, almeno secondo istituzioni come la Banca dei regolamenti internazionali, c’è già chi ha deciso di scommetterci. Il primo è stato Algebris, l’hedge fund di Davide Serra, che ha creato un fondo basato su questi prodotti. Del resto Serra ha spiegato che «i Coco bond sono oggi la nostra più forte convinzione d’investimento a basso rischio e riteniamo che esista una storica opportunità per catturare reddito cedolare straordinario da questi strumenti». Anche per questo Algebris è stato l’advisor di Duemme Sgr, la società di gestione del risparmio di Banca Esperia, che ieri ha lanciato il proprio fondo sui Cocos. Per una volta l’Italia si conferma all’avanguardia della finanza. L’impressione è che, dati i rischi, non ci sia tanto da gioire.

 

La Forza dell’Amore (?)

5 Apr

Telefonata del 1 agosto 2010 Ut.: Nicole MInetti = Int.1: voce maschile da Villa S. Martino = Int.2: Silvio Berlusconi L’interlocutore 1 dopo essersi accertato di aver contattata Nicole Minetti le dice di rimanere in attesa. dal minuto 00.00.37 al minuto 00.01.31 trascrizione integrale

 

BERLUSCONI: ciao tesoro,
MINETTI: ei, pronto?
BERLUSCONI: come sta la mia Consigliera bravissima?
MINETTI: bene bene. Tu come stai?
BERLUSCONI: eee mi parlano tutti così bene di te amore, che mi fai un piacere….
MINETTI: davvero?
BERLUSCONI: davvero amore.
MINETTI: sìììì?
BERLUSCONI: sì sì.
MINETTI: chi?
BERLUSCONI: tutti, tutti. Quelli della Lega, i nostri…
MINETTI: dai?
BERLUSCONI: ultimamenteeeee Giorgio Puricelli
MINETTI: dai, bene. Son contenta sai?
BERLUSCONI: e e
MINETTI: bene bene.
BERLUSCONI: tu sei contenta?
MINETTI: molto! Certo che son contenta, sono felicissima.
BERLUSCONI: mmmm
MINETTI: assolutamente sì.
BERLUSCONI: così poi, quando ci son le elezioni vieni in Parlamento.
MINETTI: ovvio! Certo! Ma mi sa che io mi schiero dalla parte di Libertà e Futuro dell (ride)
BERLUSCONI: a a a a. Siamooo
MINETTI: e dai, è una battutaaaa… ridi.
BERLUSCONI: siamo siamo siamo siamo sì, sto ridendo, stooo, siamo siamo comunque in un bel guaio eh?
MINETTI: mamma mia, mamma mia, tremendo.

Dal minuto 00.01.32 al minuto 00.03.31 discutono della situazione politica.
Dal minuto 00.03.34 al minuto 00.05.01 trascrizione integrale
BERLUSCONI: senti, io sono in guerra, cosa fate in vacanza voi? Dove andate tu e la Ba… tu e la Barby (intesa
Barbara Faggioli n.d.r.). State insieme?
MINETTI: non lo so ancora, non abbiamo parlato.
BERLUSCONI: la Barby come va?
MINETTI: bene, sta bene sta bene, assolutamente sta benissimo lei è brava.
BERLUSCONI: annuisce
MINETTI: sta studiando.
BERLUSCONI: bene, ottimamente, otti…. M’ha detto Giorgio che siete state a Villa d’Este?
MINETTI: sìììì, siamo andate a Villa d’Este che c’era anche Giorgio Pozzi e tutto sì, siam state bene, tranquillo. Son matti comunque eh?
BERLUSCONI: cioè?
MINETTI: eh son matti, dai. Giorgio Pozzi è matto come un cavallo.
BERLUSCONI: ah sì?
MINETTI: sì mamma mia.
BERLUSCONI: perchè?
MINETTI: (sorridendo) ma perchè sì. Perchè è matto però fa ridere è simpatico, ma è matto.
BERLUSCONI: (incomprensibile.)
MINETTI: c’aveva lì una rumena c’aveva.
BERLUSCONI: aveva una rumena?
MINETTI: ti giuro. (ride)
BERLUSCONI: (ride) …. ma presentabile o no?
MINETTI: fighissima.
BERLUSCONI: eh?
MINETTI: fighissima.
BERLUSCONI: aa figh… e allora.
MINETTI: sì sì. E tra l’altro molto amica della Flo (Florina Marincea n.d.r.) pensa te.
BERLUSCONI: pensa un pò.
MINETTI: sì. (ride)
BERLUSCONI: la quale Flo hai visto che ha fatto quelle 10 (dieci) pagine con Roncuzzi?
MINETTI: sì sì sì
BERLUSCONI: (inc.) che vergogna.
MINETTI: mamma mia, non si può, non si può.
BERLUSCONI: va bè. Senti amore, eee dove sei tu, a Rimini o a Milano?
MINETTI: no, io sono a Milano sono.
BERLUSCONI: mmm a Milano, a Milano.
MINETTI: sì
BERLUSCONI: io purtroppo sto partendo per Roma…
MINETTI: e lo sò, perchè domani sei…..
BERLUSCONI: annuisce … son coi Senatori eccetera… mmmm
MINETTI: ma quando parti, a che ora parti?
BERLUSCONI: eee parto adesso.
MINETTI: a sì?

Dal minuto 00.05.03 al minuto 00.05.18 parlano delle condizioni di salute di Silvio Berlusconi. Dal minuto 00.05.19 al minuto trascrizione integrale.

Il problema, elogiando senz’altro l’avvenenza di Minetti e la sua maggiore età, non sta nella libera interpretazioni dei sentimenti (saremmo dei Torquemada laici) ma nel fatto che non è lecito spianare la gustosa e ben remunerata carriera politica a qualcuno solo perchè ci sta una relazione. Non andrebbe fatto ad alcun livello, men che meno nel ruolo del signore in questione. Se poi la questione Etica non conta, allora va bene tutto. Badare bene: Etica e non Morale.

Costa d’Avorio, la prossima Vergogna

31 Mar

 

Dopo 4 mesi di dichiarazioni, controdichiarazioni, embarghi, minacce, scontri di piazza, quasi 500 morti e un milione di sfollati, lo stallo politico in Costa d’Avorio e la lunga lotta di potere fra Laurent Gbagbo e Alassane Ouattara potrebbe giungere alla fine.

Da ormai alcuni giorni, le forze del presidente regolarmente eletto e riconosciuto dalla comunità internazionale hanno occupato la capitale del Paese, Yamoussoukro, al termine di un’offensiva militare durata tre giorni, durante la quale le Forces Nouvelles hanno incontrato poca resistenza fra le truppe fedeli a Laurent Gbagbo. E ora minacciano di marciare su Abidjan e di accerchiarlo, intimandogli, con un ultimatum, di andarsene.

 

 

Secondo l’ambasciatore ivoriano a Parigi, un uomo fedele a Ouattara e da lui nominato, il Presidente regolarmente eletto ora sovrintende su circa tre quarti della Costa d’Avorio. Secondo gli analisti, Ouattara controlla anche la produzione di 600.000 tonnellate di cacao, pari a oltre la metà del prodotto nazionale.

Ora Gbagbo è alle strette e deve decidere che cosa fare. Le ultime sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo hanno ulteriormente indebolito e isolato. E allora, quale sembra essere la strategia? Alzare il tiro. Il suo ministro della Gioventù, Charles Blé Goudé, ha lanciato alcuni giorni fa un appello e ha chiamato alle armi i civili. Secondo il settimanale Jeune Afrique, nel distretto di Cocody sarebbero 5 mila i cittadini che avrebbero risposto alla chiamata e ingrossato le fila delle FDS, le Forze di Difesa e Sicurezza. Gbagbo si prepara alla guerra aperta.

E intanto, la situazione umanitaria si aggrava. Gli sfollati, in fuga dagli scontri, sarebbero un milione. Le agenzie internazionali si mobilitano: la settimana scorsa gli Stati Uniti hanno versato al Pam, il Programma alimentare mondiale, 12 milioni di dollari per l’attuazione di progetti di emergenza nelle regioni più toccate dalla crisi in Costa d’Avorio e nelle regioni confinanti della Liberia.

 

 

Il genocidio del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati) una quantità di persone stimata tra le 800.000 e 1.071.000 unità.

Le vittime furono in massima parte di popolazione definita Tutsi dai colonizzatori belgi; i Tutsi erano una minoranza rispetto agli Hutu, gruppo di popolazione maggiore a cui facevano capo i due gruppi paramilitari principalmente responsabili dell’eccidio: InterahamweImpuzamugambi. I massacri non risparmiarono una larga parte di Hutu moderati, soprattutto personaggi politici.

rwuanda

La storia del genocidio ruandese è anche la storia dell’indifferenza dell’Occidente di fronte ad eventi percepiti come distanti dai propri interessi. Emblematico fu l’atteggiamento dell’ONUche si disinteressò del tutto delle tempestive richieste di intervento inviategli dal maggiore generale canadese Roméo Dallaire,[senza fonte] comandante delle forze armate (2.500 uomini, ridotti a 500 un mese dopo l’inizio del genocidio) dell’ONU. Un passo tratto dal fax inviato all’ONU da Dallaire denuncia il rischio dell’imminente genocidio: Dal momento dell’arrivo della MINUAR, (l’informatore) ha ricevuto l’ordine di compilare l’elenco di tutti i tutsi di Kigali. Egli sospetta che sia in vista della loro eliminazione. Dice che, per fare un esempio, le sue truppe in venti minuti potrebbero ammazzare fino a mille tutsi. (…) l’informatore è disposto a fornire l’indicazione di un grande deposito che ospita almeno centotrentacinque armi… Era pronto a condurci sul posto questa notte – se gli avessimo dato le seguenti garanzie: chiede che lui e la sua famiglia siano posti sotto la nostra protezione. Il Dipartimento per le Missioni di Pace con sede a New York non inviò la richiesta d’intervento alla Segreteria Generale né al Consiglio di Sicurezza.

 

A Sud di Chi

31 Mar

piccoli immigrati italiani ad Ellis Island, New York

Il disastro mediterraneo di Mr. Bunga Bunga Mentre la Tunisia, Paese ben più piccolo ed economicamente meno sviluppato del nostro, ospita con grande efficienza decine di migliaia di rifugiati provenienti soprattutto dalla confinante Libia dove divampa la guerra civile, l’Italia, settima potenza industrializzata del mondo, si trova in grave difficoltà per il flusso di qualche migliaio di persone, migranti e rifugiati, provenienti dal Nordafrica, che si sono riversate sull’isola di Lampedusa. Ancora una volta il governo Berlusconi ha dimostrato di essere, al contrario delle sue affermazioni propagandistiche, cui oramai più nessuno crede, tranne forse qualcuno dei disperati isolani di Lampedusa, per nulla un governo dei fatti e, invece, lo sgoverno del caos organizzativo e dell’ingiustizia.

Per lunghi anni, il governo delle destre, ma, in certa misura, anche quello precedente del centrosinistra, si sono cullati nella pericolosa illusione che, per affrontare il fenomeno del flusso umano da Sud verso Nord fosse sufficiente sostenere i dittatori della sponda Sud, da Ben Alì a Gheddafi, delegando loro il lavoro sporco della violazione dei diritti umani, assumendo poi in proprio, qualora questa delega non fosse più sufficiente, il respingimento in aperta violazione dei diritti dei richiedenti asilo sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite in materia. Il tutto condito dal gergo apertamente razzista dei leghisti, un ceto politico di avventurieri che ha deciso di trarre profitto politico dal tema dell’immigrazione e della paura dei diversi. Fenomeno di bassa speculazione politica che del resto trova delle manifestazioni anche negli altri Paesi di Europa, a conferma della fase di decadenza che il Vecchio continente sta attraversando.

Per far ciò, il governo Berlusconi non si è peritato di violare norme internazionali ed europee, in materia di diritti dei rifugiati e di non discriminazione, ha introdotto leggi inique e incostituzionali come quella che rende la condizione di clandestinità un illecito penale, e aperto luoghi concentrazionari, anch’essi fuori dalla normativa costituzionale come i centri di detenzione per stranieri. Abbinando a tale repressione sul terreno, come di consueto, la demagogia più sfrenata, ad esempio nei confronti dei Tunisini, invitati a cercarsi il proprio “paradiso” in Italia. Questa politica basata sulla negazione non solo delle norme, ma anche dei più elementari principi di umanità, che si è spinta a tentare di criminalizzare i pescatori che portano soccorsi alle persone perdute in mare, così come i medici che curano i cosiddetti clandestini, mostra oggi anche tutta la sua inadeguatezza dal punto di vista funzionale.

Ben altro approccio è necessario per affrontare un problema come quello delle migrazioni. L’epoca dei muri deve finire una volta per tutte. Fra gli adempimenti più urgenti, finalmente, il varo di una legge sul diritto di asilo che sia in armonia con le leggi internazionali e un impegno di cooperazione paritaria con le nuove democrazie dell’Africa del Nord, che veda l’abbandono da parte dell’Italia e dell’Europa di ogni atteggiamento ricattatorio, nel quale sembra invece indulgere l’attuale governo. Dobbiamo essere consapevoli che, finché il Nord continuerà a sfruttare le risorse del Sud ed a fomentarvi le guerre, continueranno i flussi di rifugiati e di migranti, cui occorre far fronte con spirito di autentica accoglienza e cooperazione.