La ricerca degli studiosi – Abhijit Banerjee ed Esther Duflo – si è concentrata sulle cause profonde della povertà che ne perpetuano l’esistenza, anche quando esisterebbero le condizioni per attenuarne il peso. L’esempio di chi, nell’indigenza, spende per mangiare solo una piccola parte di ciò che ha
di EMANUELA STELLA
ROMA – Poveri, povertà: temi che si sono nutriti da sempre di cliché e luoghi comuni, tanto nella letteratura che nelle analisi sociopolitiche. I poveri o sono pigri o sono servizievoli, mostrano un animo nobile, oppure sono nati per rubare: non possono essere altro che disperati e privi di risorse. Non c’è da stupirsi se le formule politiche che corrispondono a questa visione diffusa della povertà tendono a riassumersi in slogan: “mercato libero come antidoto alla miseria”, “risolvere i conflitti è il problema prioritario”, “soldi ai più poveri”, o anche “gli aiuti internazionali impediscono lo sviluppo”, e così via. Per andare avanti è necessario sforzarsi di capire come sia davvero la vita dei poveri, in tutta la sua complessità e ricchezza.
La ricerca nei vicoli, nei villaggi. “E’ quello che cerchiamo di fare da 15 anni – si legge nella prefazione di “Poor economics. 1 A radical rethinking of the way to fight global poverty“, il libro scritto da due docenti del MIT, Abhijit Banerjee ed Esther Duflo, che uscirà in aprile. – Siamo accademici e in quanto tali formuliamo teorie e analizziamo dati. Ma la natura del nostro lavoro ci ha anche fatto passare parecchi mesi sul campo, nel corso di questi anni, fianco a fianco di volontari delle Ong, funzionari di governo, operatori sanitari ed erogatori di microprestiti; ovvero fianco a fianco dei poveri, in vicoli e villaggi”.
La linea della povertà. Nei 50 paesi presi in considerazione dai due studiosi, è di 16 rupie a persona al giorno: al di sotto di questo limite si viene definiti poveri. Al cambio attuale 16 rupie corrispondono a 36 centesimi di dollaro: con questa cifra, in India, si comprano una quindicina di banane piccole, o poco più di un chilo di riso scadente. Abbastanza per vivere? Nel 2005, in tutto il mondo, 865 milioni di persone (il 13 per cento della popolazione mondiale) hanno tirato avanti così. Vivere con quello che nel raffronto con l’America, dove i generi di prima necessità costano più che nel terzo mondo, equivale a 99 centesimi significa avere un accesso limitato all’informazione (giornali, televisione, libri sono cose che costano): quindi cose che il resto del mondo dà per scontate, come il fatto che le vaccinazioni impediscono a tuo figlio di prendere il morbillo, a moltissimi sono ignote.
Le vie d’uscita ci sono. “Non è facile sfuggire alla povertà, ma un atteggiamento costruttivo e un aiuto mirato (qualche informazione preziosa, o una piccola spinta) possono produrre grandi risultati. D’altro canto, aspettative malriposte e mancanza di fiducia trasformano piccoli ostacoli in barriere insuperabili.Poor economics è un libro sulla incalcolabile ricchezza, traducibile in termini concreti, che scaturisce dalla comprensione dell’economia quotidiana dei poveri. Partiamo dagli aspetti essenziali della vita familiare: cosa comprano, se mandano a scuola i figli, come provvedono alla loro salute, quanti bambini decidono di avere, passando all’esame del modo in cui mercati e istituzioni si pongono rispetto ai poveri: possono avere soldi in prestito, possono risparmiare, possono avere una assicurazione contro i rischi che corrono? Sono le questioni di fondo che si rincorrono in tutto il libro: come possano riuscire a cambiare la loro vita, e cosa glielo impedisce”. Si tratta spesso di condizionamenti sociali e culturali.
Le domande da farsi. Perché, per esempio, un uomo che vive in Marocco, in condizioni di sottoalimentazione, si indebita per comprare un televisore? Perché i poveri dello stato indiano del Maharashtra spendono il 7% del loro bilancio alimentare in zucchero? “Gli autori – scrive sul “Sole 24 ore” Moisés Naim, autorevole studioso di economia – sono allergici alle grandi generalizzazioni del tipo: ‘occorre aumentare l’aiuto internazionale ai paesi pover’, oppure, ‘l’aiuto internazionale non funziona ed è controproducente’. Sono anche scettici nei confronti di affermazioni non comprovate da dati verificabili e hanno un’ossessione per ottenere informazioni direttamente dai protagonisti del libro: le persone che guadagnano e vivono con un dollaro al giorno”.
Poveri, ma davvero anche affamati?. Il libro è costellato di informazioni “che contraddicono convinzioni radicate. I loro studi sul campo rivelano, per esempio, che coloro che vivono con un dollaro al giorno non patiscono la fame. Se fossero affamati spenderebbero tutti i loro redditi in generi alimentari. Ma non è così. I dati raccolti da Banerjee e Duflo in 18 paesi rivelano che il cibo rappresenta tra il 36 e il 79% del consumo dei poveri che vivono in campagna, e tra il 53% e il 74% di quelli che vivono nelle città. Per ogni 1% di aumento dei redditi, ne consumano in cibo soltanto lo 0,67%. E questo aumento non è destinato a ottenere un maggior numero di calorie, ma calorie con un sapore più gradevole”.
La lotta alle tre “I”. I due economisti si scagliano contro “le tre i” – ideologia, ignoranza, inerzia, – cause principali del fallimento dei progetti di assistenza internazionale e parlano di una “trappola della povertà”, che poggia su una soglia critica di alimentazione, al di sopra e al di sotto della quale le persone vengono sospinte verso l’occupazione e l’accesso a cibo più nutriente, oppure precipitano ulteriormente nella miseria e nella fame. Questo circolo vizioso (o virtuoso) può riprodursi per generazioni: si può essere condannati alla fame già nel grembo materno, senza alcuna prospettiva di liberarsi dalla trappola. E non è solo un problema di quantità di cibo: conta anche la qualità, contano i micronutrienti come iodio e ferro, che hanno un impatto diretto sulla salute e, di conseguenza, sulla possibilità di lavorare in modo proficuo.
La disinformazione. E ancora: ogni anno 9 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni muoiono di malattie che si possono prevenire, come la diarrea e la malaria. Perché le madri non fanno vaccinare i figli? Perché non usano le zanzariere, o non disinfettano l’acqua da bere con il cloro? Il problema è la mancanza di informazione, l’impossibilità di pagare cifre anche piccole, l’attaccamento a metodi di cura tradizionali e inefficaci. Eppure invece di agire nel concreto, chi vuole aiutare queste popolazioni tende a interrogarsi sulle “questioni di fondo”: qual è la causa della povertà? Gli aiuti internazionali sono un bene o un male?
Il microcredito. Un intero capitolo è dedicato al microcredito, per alcuni la panacea dei mali del terzo mondo, per altri la causa del numero sempre crescente di suicidi tra i molti microimprenditori che non riescono a pagare le rate del prestito. Si tratta di uno strumento efficace e a costi accessibili, ma occorre fare il salto dalla bottega (il “miliardo di imprenditori scalzi” di cui parlano i guru dell’imprenditoria sociale) all’impresa vera e propria. L’insipienza dei governi viene spesso addotta come giustificazione al fallimento di politiche di sviluppo pure efficaci; ma occorre tenere conto che alcuni paesi vivono ancora sotto l’ombra lunga di istituzioni estrattive di stampo coloniale, che li depredano delle loro immense risorse naturali.
Un Kg di lenticchie per un vaccino. In una intervista di qualche anno fa, la Duflo disse che, disponendo di un milione di dollari, lo investirebbe subito in un programma di vaccinazioni: certo, è necessario superare resistenze culturali dovute all’ignoranza e alla non dimestichezza con la medicina occidentale, ma – ha detto – “ho partecipato ad un progetto che assicurava a ciascun genitore un chilo di lenticchie per ogni figlio vaccinato, e devo dire che funzionò egregiamente”. In materia di malaria, invece, il problema è la costanza della terapia, è escogitare un modo per far sì che le persone continuino ad assumere i farmaci. “Un gruppo di studenti ha proposto una soluzione brillante che ora viene sperimentata in Pakistan – racconta Banerjee: – dato che il farmaco lascia tracce nell’urina, le persone in terapia fanno un semplice test per verificarne la presenza, e vengono premiate con del credito per il telefono cellulare. L’incentivo funziona”.
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